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Progetti di fundraising in cerca d’autore

Che cosa frena le organizzazioni del Terzo settore a fare la scelta del fundraising? Lo abbiamo chiesto a Marianna Martinoni, fundraiser e formatrice di buone pratiche di raccolta fondi, che nel 2015 ha fondato il gruppo di consulenza Terzofilo.

di Franco Genovese

Il fundraising sta vivendo un momento felice o la crisi da Covid si è fatta sentire anche qui?
La crisi pandemica ha sicuramente acuito molti dei problemi di cui le organizzazioni del Terzo settore si occupano, costringendole a un superlavoro per rispondere a nuove esigenze e a nuovi bisogni. Di conseguenza chi lavora negli uffici di fundraising all’interno delle organizzazioni non profit ha sicuramente assistito in questi ultimi due anni a un vertiginoso aumento di lavoro, accompagnato da un’accelerazione esponenziale dal punto di vista digitale: la crisi ha portato tante e nuove richieste da soddisfare, costringendo le organizzazioni non profit a trovare nuovi modi per relazionarsi con i propri donatori e potenziali donatori in costante evoluzione. Nella prima fase della pandemia, nel corso del 2020, per assicurare le entrate necessarie, le organizzazioni del Terzo settore hanno dovuto capire come riuscire a raggiungere i propri donatori in modi diversi, hanno dovuto provare soluzioni e modalità in parte del tutto nuove, sia che si trattasse di lanciare appelli di legati all’emergenza o chiedere ai sostenitori di donare online».

E il digitale ha aiutato?
«Certamente. Proprio sul fronte delle donazioni digitali ci sono stati cambiamenti in tempi record che erano attesi in 3-5 anni, perché durante la Pandemia non c’è stata scelta. In alcuni casi, proprio grazie all’adozione di strumenti digitali, si è assistito al lancio di alcune campagne incredibilmente ambiziose, spesso con risultati davvero impressionanti che hanno saputo coinvolgere per la prima volta anche nuove categorie di donatori. Passata poi la prima fase dell’emergenza sanitaria, la raccolta fondi è andata meglio per quelle organizzazioni che hanno saputo adattarsi velocemente al contesto mutato, che hanno saputo essere resilienti e non si sono bloccate a causa dei tanti inattesi nuovi paletti imposti dalla pandemia: i donatori hanno continuato a essere al loro fianco, a donare, magari con canali e modalità diverse, con maggiore attenzione in un primo tempo per le cause e i progetti legati all’emergenza sanitaria e poi anche verso altri progetti in altri ambiti».

Come è possibile per gli enti non profit individuare nuovi donatori?
«Ogni organizzazione non profit dispone, più o meno consapevolmente, di un patrimonio di relazioni che se adeguatamente sollecitate possono andare a costituire una solida rete di sostenitori, anche continuativi. Il lavoro che facciamo insieme alle organizzazioni che accompagniamo nella costruzione di strategie di fundraising strutturate ed efficaci è proprio quello di analizzare e far emergere le relazioni, sia quelle in essere sia quelle in potenza, per poi disegnare percorsi di coinvolgimento graduali a favore di un determinato progetto o causa. È un lavoro certosino che richiede soprattutto tempo e professionalità dedicate sia nella fase di identificazione, sia in quella di acquisizione e di coinvolgimento. Ma porta frutti solidi a medio lungo termine».

La normativa di riferimento, cioè il Codice del Terzo settore, vi piace o ci vorrebbe qualcosa in più?
«Il Codice rappresenta sicuramente un miglioramento rispetto a prima: pensate solo che per la prima volta all’articolo 7 si parla in modo ufficiale della possibilità delle organizzazioni non profit di fare fundraising e per la prima volta in un testo di legge si dà anche una definizione del termine. Un passo avanti è stato fatto e tutti nel settore stiamo aspettando i decreti che chiariscano un po’ per volta quale sarà il quadro all’interno del quale potranno muoversi i futuri enti del Terzo settore».

Che cosa avviene in altri Paesi europei?
«Le organizzazioni non profit di tutta Europa sono state duramente colpite dalla pandemia: in una ricerca presentata a dicembre 2020 e realizzata dall’Efa, l’Associazione Europea del Fundraising e Sales Force, emerge che molte organizzazioni hanno faticato a raggiungere i beneficiari o fornire i propri servizi durante la prolungata fase di lockdown. Molte hanno dovuto ridimensionare o annullare del tutto nel corso dell’anno le attività di raccolta fondi. In particolare in Italia, Spagna e Regno Unito le organizzazioni testimoniano di aver assistito a un calo delle donazioni, mentre in Germania e Francia si registra un aumento; le donazioni sono state stabili per il 40% degli intervistati nei Paesi Bassi. A livello europeo quindi, a partire dalla seconda metà del 2020, c’è stato un vero e proprio cambiamento nel modo in cui le organizzazioni non profit chiedono fondi e si impegnano con i loro sostenitori nella maggior parte d’Europa, in particolare quando si tratta di organizzazioni non profit di medie e piccole dimensioni. Oltre a questo si registra una volontà molto più forte di investire nella raccolta fondi e di pensare in una prospettiva a lungo termine».

Che cosa consiglierebbe agli enti non profit rispetto all’opportunità del fundraising?
«Iniziare a fare fundraising, porta le organizzazioni verso un percorso sempre e comunque di crescita: cercare risorse all’esterno porta inevitabilmente a dover raccontare meglio il motivo per cui l’organizzazione esiste, a spiegare in termini più efficaci come agisce, a quale problema vuole dare una risposta e con quali strategie. Contare sul sostegno di donatori privati spinge anche a pianificare meglio, a monitorare in modo più efficace i risultati e a cercare di quantificare, con indicatori sempre più mirati, l’impatto positivo che si va a creare grazie anche al loro supporto. Chiedere donazioni a soggetti terzi, siano essi privati cittadini o aziende, costringe infine le organizzazioni non profit a spiegare con trasparenza che cosa si farà con le risorse che si stanno chiedendo e che cosa si è fatto in passato con quelle già ricevute. In sostanza, coinvolgere donatori privati, siano essi cittadini o aziende, fa guardare quello che l’organizzazione realizza con occhiali sempre diversi e aiuta a non diventare troppo autoreferenziali».

E alle aziende potenziali donors che cosa consiglierebbe?
«Alle aziende consiglierei di prendere in seria considerazione l’opportunità di inserire all’interno delle proprie strategie di Csr il sostegno a realtà non profit o a progetti di utilità sociale sui territori in cui si trovano a operare. Pur essendo moltissime le organizzazioni non profit che operano nel nostro Paese e che fanno corporate fundraising, oggi esistono ottimi strumenti per poter capire se un’organizzazione è affidabile e fa un lavoro veramente utile ed efficace, rispondendo alle tante nuove esigenze a cui non sempre le istituzioni preposte riescono a rispondere, sia in Italia sia in altri contesti. Inoltre sostenere per più anni un’organizzazione e partecipare alla realizzazione di un progetto porta sicuramente un valore aggiunto immenso per le persone che fanno parte dell’azienda. Lo dimostra il crescente interesse per il Volontariato d’Impresa, inteso come progetto in cui l’impresa incoraggia, supporta o organizza la partecipazione attiva e concreta del proprio personale alla vita della comunità locale o a sostegno di organizzazioni non profit, durante l’orario di lavoro. Ma lo dimostrano anche le tante campagne di crowdfunding di successo attivate da dipendenti di aziende durante i mesi più duri della pandemia. Il mio consiglio è quindi fare un’attenta valutazione e trovare l’organizzazione con i valori più simili all’azienda stessa e lavorare insieme alla creazione del rapporto di collaborazione tenendo conto delle esigenze e dei tempi di entrambe le realtà. Costruita in questo modo l’esperienza non potrà che essere positiva».

Pensa che ci siano fattori di resistenza da parte delle organizzazioni non profit nel fare fundraising?
«Rispetto a una decina di anni fa oggi sono molte le organizzazioni, e in primis quelle che operano nei settori socio-sanitario, della ricerca scientifica, della cooperazione internazionale, che hanno compreso l’importanza di investire in risorse umane professionalmente preparate, in grado di elaborare strategie di raccolta fondi strutturate e sostituire la logica, ormai destinate a fallimento certo, della “questua” o della raccolta occasionale. Interlocutori e potenziali sostenitori delle organizzazioni non profit sono infatti oggi molto attenti ed esigenti: ne consegue che il loro coinvolgimento diventa sempre più difficile e complesso, bombardati come sono da richieste di sostegno a sempre nuove “cause” e attraverso nuovi canali. Nonostante questo, oggi in Italia esistono ancora molti ostacoli e molta poca conoscenza sul fundraising, che si fatica ancora a vedere non tanto e non solo come insieme di tecniche e strumenti per reperire risorse finanziarie, bensì come strategia che parte dal coinvolgimento, dall’ideazione di iniziative di grande rilevanza culturale e sociale rivolte specificamente alle comunità locali o di settore.

Che cosa le ostacola a fare questa scelta? Problemi di comunicazione o di reperimento di informazioni? Pigrizia, timidezza?
«Il primo ostacolo nel fare fundraising per un’organizzazione non profit sta generalmente nella disponibilità a investire in questo tipo di attività: per farlo in modo efficace c’è bisogno di tempo, di risorse professionalmente preparate e soprattutto dedicate al rapporto con i donatori, nonché delle disponibilità a investire in una serie di attività e strumenti che normalmente danno frutti nel medio se non nel lungo termine. I budget limitati e gli organici spesso ridotti a volte rendono difficile questo tipo di scelta e spesso si fatica a concepire un giusto e legittimo compenso da far rientrare nei costi generali di gestione o di promozione, si fatica a ritenere il fundraising una funzione strategica all’interno della vita delle organizzazioni. Poi ci sono delle ragioni culturali: chiedere donazioni per molti non è facile. Molte persone sono a disagio con la sola idea di sollecitare la propria rete relazionale con una richiesta di donazione o pensano che alcuni degli strumenti usati nella sollecitazione del dono siano invadenti o non rispettosi della privacy delle persone. A volte pesa anche l’età media o la forma mentis di coloro che compongono la governance di molte piccole organizzazioni non profit che guarda con diffidenza alle nuove modalità di coinvolgimento. Per chiedere occorre inoltre mostrare trasparenza sull’utilizzo dei fondi, chiarezza nel raccontare progetti e obiettivi, ma anche capacità di coinvolgere i diversi donatori nelle cause che l’organizzazione porta avanti. Considerata la scarsa “cultura” sul fundraising che esiste oggi in Italia e l’attuale contesto di crisi, quella del fundraiser è oggi una professione che richiede una fortissima motivazione nei confronti della causa a cui si dedica e un profondo senso etico. Oltre a ciò servono ottime capacità relazionali una buona capacità di pianificare, gestire e coordinare tutti gli aspetti di un’attività di raccolta fondi strutturata sul medio e lungo termine. Proprio per questo il compito del fundraiser professionista è quello ben più complesso e ben lontano da essere un “venditore di cause”. A lui spetta il compito di costruire un percorso all’interno o insieme all’organizzazione, per far sì che questa aumenti il numero e la qualità delle relazioni con i donatori, potenziali o effettivi».

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